Ungheria: 400 ore di straordinario generano Internazionalizzazione o Delocalizzazione?
Nel dicembre 2018 il Parlamento ungherese ha approvato la controversa riforma della legge sul lavoro: abbiamo letto e sentito di migliaia di persone scese in piazza a Budapest per manifestare contro la cosiddetta “legge schiavitù”, voluta dal governo di Viktor Orbán. La nuova norma innalza da 250 a 400 le ore annuali di straordinario che i datori di lavoro potranno richiedere ai propri dipendenti. Le aziende avranno la possibilità di retribuire quest’ulteriore lavoro straordinario dilazionando il pagamento fino a 36 mesi, triplicando quindi il lasso di tempo consentito in precedenza all’entrata in vigore della nuova norma. Come leggere questo scenario alla luce dei ripetuti “terremoti politici” cui la questione lavoro è sottoposta all’interno della UE?
Il primo ministro ungherese ha dichiarato che la riforma ha lo scopo di “rimuovere la burocrazia” per sostenere la crescita economica. La quale crescita, esaminando l’aumento del Pil dell’ultimo biennio (intorno al 2,5% l’anno) e il dato sulla disoccupazione (3.7%, da mesi ai minimi storici), è senz’altro innegabile. Non è un caso che l’Ungheria sia attualmente uno dei Paesi dell’Europa centro-orientale in grado di attrarre il maggior numero di investimenti esteri, grazie anche alla presenza di manodopera altamente qualificata e alla sua posizione geografica indiscutibilmente strategica. Da ultimo il costo del lavoro è tra i più bassi in Europa. Le aziende italiane non sono in generale indifferenti all’Ungheria: la “domanda di Italia” dalla sponda ungherese è sempre stata positiva, il nostro sistema industriale nel Paese vanta la presenza di oltre 2.600 aziende che impiegano più di 26.000 persone con fatturato/pil generato di oltre 4 miliardi di euro (Fonte: Farnesina). L’attrattività magiara trova ulteriore e consistente motivo nei sostanziosi contributi erogati dall’Unione Europea all’Ungheria che richiamano l’attenzione di un gran numero di aziende estere.
Eppure la strategia politico-economica di Orbán, di stampo nazionalista e anti-europeista, su cui ha basato con successo la propria campagna elettorale, ha evidentemente generato un problema che potremmo definire di puro stampo macroeconomico: un paese che ha considerevolmente sviluppato la propria economia, con una disoccupazione posizionata a livelli esclusivamente fisiologici, trova oggi difficoltà a far incontrare domanda e offerta di lavoro. Perché la prima, con frequenza, supera il profilo quantitativo e qualitativo che la seconda è in grado di mettere a disposizione, nonostante i parametri di cui si è detto.
La risposta iniziale ungherese all’andamento di queste due curve (domanda e offerta di lavoro) che, nonostante tutto, faticano a incontrarsi con regolarità, è stata quella di spingere – attraverso il canale normativo – su un eventuale eccesso di lavoro straordinario, allo scopo di “risolvere il problema” sul piano squisitamente quantitativo, facendo leva su un ultra utilizzo garantito dalla forza lavoro esistente, senza distinzione di profili, qualità o “livello di engagement” delle risorse. Altri Paesi in condizioni simili hanno adottato un approccio nettamente differente. Un esempio interessante è il Giappone, che ha aperto a uno sviluppo dei visti per lavoro nel 2019 per nuove 500.000 unità, con particolare riguardo a figure professionali di medio-basso profilo, per quanto concerne settori quali cantieristica ed edilizia, guardando agli investimenti propri delle aziende internazionali. Ed in effetti il 2018 è stato l’anno della disoccupazione ai minimi termini in Giappone: all’inizio della scorsa primavera Il Ministero degli Affari interni delle poste e telecomunicazioni nipponico segnalava che a gennaio 2018 il tasso di disoccupazione era diminuito al 2,4% (+4 punti base rispetto allo stesso mese dell’anno precedente), contro attese per un tasso al 2,7%. Un trend che si è confermato nel corso dell’anno, con un leggero aggiustamento a ridosso del tasso atteso. Rileva segnalare che il concetto di “profilo medio o medio basso” nel mondo aziendale non deve essere totalmente associato a posizioni “di linea produttiva”, ma si riferisce anche a neo-laureati o posizioni con un grado di specializzazione non elevato, che avranno peraltro il “plus” di un successivo accesso al cluster dei “talenti o dei potenziali”.
Quale la via e soprattutto quale la risposta scevra da un qualsivoglia posizionamento politico? La risposta aziendale ce la fornisce, con pochi dubbi a riguardo, la dimensione internazionale del lavoro, tematica critica nel dibattito odierno, forse incandescente sugli scranni del parlamento ungherese, dove sia il dibattito a livello europeo che quello dello specifico mercato ungherese sono in generale poco inclini alla dimensione multiculturale e all’inclusione, circostanze cui sono invece molto attente le aziende, dove la multiculturalità è di norma un fattore critico di successo, “dalla base agli executive”. Se la domanda di lavoro supera l’offerta, le aziende non possono certo rimanere inerti. Il Giappone, caso contrappasso all’Ungheria, rappresenta un interessante spunto di riflessione.
Se, da un lato, in Ungheria sono incentivati gli investimenti europei, anche attraverso una corporate tax al 9%, dall’altro le aziende estere, soprattutto quelle appartenenti ai settori delle costruzioni, dell’energia e delle utilities, incontrano non pochi ostacoli a inserirsi all’interno del mercato economico ungherese, per larga parte sotto il controllo diretto del governo, a causa di un’ostruzione più ideologica che di merito verso quella multiculturalità che è invece un chiaro fattore di discontinuità positiva per quelle aziende che hanno internazionalizzato il proprio business. Diventa quindi necessario fare un “match” tra il modello di internazionalizzazione presente in Ungheria e quel concetto di delocalizzazione oggi molto dibattuto e di grande attualità anche nel nostro Paese. La politica che trova declinazione su una norma come la “legge sulla schiavitù” genera, con grande probabilità, fenomeni di delocalizzazione, anche italiani. Se lo scopo diventa invece soddisfare le esigenze di un nuovo mercato, anche il mercato ungherese, o più in generale la regione balcanica/mitteleuropea, può trasformarsi in un terminale di internazionalizzazione. Allora non è più “solo” il mercato ungherese o il semplice interesse per un costo del lavoro basso, ma l’hub ungherese il modello da cui può trarre giovamento l’intera regione mitteleuropea, magari tramite una consociata ubicata in Ungheria con capogruppo italiana. Ecco che allora parliamo di internazionalizzazione e non di delocalizzazione, due concetti diversi. Molto diversi.
Ma per scegliere questa seconda strada è necessario aprirsi alla dimensione multiculturale del lavoro, non sfuggirvi, non sottrarsi a quella che è una strategia di sviluppo che le aziende più evolute hanno intrapreso da anni: esattamente il contrario della “legge schiavitù”. Incentivare gli investimenti esteri per poi nazionalizzare la manodopera genera uno squilibrio socio-economico che può trovare traduzione, appunto, in questo tipo di norma e, con grande probabilità, nella delocalizzazione “hard”, quale inevitabile effetto a valle.
La quotidianità della società che dirigo, ECA Italia, ci porta a seguire con regolarità i temi della mobilità internazionale del lavoro supportando la strategia delle aziende che vogliono internazionalizzare il proprio business. Il lavoro e l’esperienza ci insegnano che l’effetto a valle delle politiche pianificate a monte come la “legge schiavitù” è, in larghissima quota, la delocalizzazione. Anche delocalizzazione italiana, a quel punto realisticamente disinteressata a sviluppare il mercato della Mitteleuropa ed esclusivamente attratta dalla leva del costo lavoro al ribasso. Delocalizzare significa proprio questo, andare a produrre in Ungheria per vendere un prodotto nel mondo. Internazionalizzare è invece andare in Ungheria a servire il mercato di quella regione, che è ben più ampia e interessante, realizzando sinergie con la casa madre (magari italiana) e promuovendo il proprio brand in un’ottica di area. Misurando l’occupazione delle capogruppo, anche italiane, che si sono mosse in questo modo, osservando la curva occupazionale che si coordina con gli IDE (investimenti diretti esteri) avremo la possibilità di distinguere in modo “pulito” la differenza tra i due termini più volte richiamati: internazionalizzazione e delocalizzazione, niente affatto sinonimi.
L’Ungheria fa peraltro parte di quella schiera di Paesi europei che ha adottato la tanto discussa flat tax (del 15%) sul reddito delle persone fisiche. Per chi, come noi, ha una frequente relazione con le aziende italiane che vivono e fanno business in quel mercato, è noto che questa misura fiscale ha contribuito ad ampliare il gap sociale, favorendo i redditi medio-alti e lasciando indietro le fasce di popolazione già in difficoltà, come dimostrano ad esempio gli studi del Nobel Peter Diamond, probabilmente il maggior esperto mondiale di finanza pubblica, e di Emmanuel Saez, economista franco-Americano Professore di Economia a Berkeley – University of California. Per di più un’aliquota “flat” molto bassa non riesce a finanziare i bisogni di spesa sociale in Paesi che iniziano ad avere livelli di Pil pro-capite che si avvicinano a quelli dei Paesi sviluppati.
I dati macro ci confermano che dal 2010 ad oggi il reddito pro-capite ungherese è passato da 13.000 a 14.700 dollari, ma è stato superato, ad esempio, da quello polacco, dove il sistema fiscale è molto meno generoso e non ha praticamente recuperato che pochi centesimi percentuali da quello tedesco che, nel settennio analizzato, rimane di tre volte superiore.
Il tema è naturalmente sensibile, non è un caso che le aziende più evolute investano molte risorse, economiche e umane, sul tema delle soft skill e di come queste debbano entrare a servizio di una gestione che guardi al mercato e alle aziende come un sistema aperto. Ritengo che il messaggio che arriva dall’Ungheria vada necessariamente letto, approfondito con uno sguardo analitico che si “sganci dai social e atterri nel mondo reale”. E il mondo reale non può essere fatto di 400 ore di straordinario. La dimensione internazionale del lavoro è certamente una risposta pro-attiva e propositiva che può e deve essere seguita da quelle economie che, per sussistere, devono darsi un taglio transnazionale. In sostanza tutte quelle dei Paesi Ocse.