Risorse aggiuntive. Occhio a non fare come Re Mida
Le condizioni sembrano oggi così favorevoli da suggerire ai policy makers la massima attenzione a non cadere nell’errore di re Mida.
Con l’avvicinarsi della finestra nella quale l’Unione Europea potrà ricevere i progetti dei Paesi membri (dal 15 ottobre al 30 aprile), si fa sempre più serrato il dibattito sul Next Generation EU (più noto come Recovery Fund), il grande Piano per la resilienza e soprattutto la ripresa che guarda alle imprese di oggi e all’Europa di domani –e quindi ai giovani.
È abbastanza evidente e per altro condiviso dalla stragrande maggioranza degli osservatori che si tratti di un’opportunità irripetibile. Una dotazione extra superiore per ammontare di fondi in assoluto – qualcosa come 760 miliardi, per l’Italia in particolare oltre 200 miliardi – e anche in rapporto al Pil a quella del piano Marshall che risollevò il nostro Paese nel secondo dopoguerra.
L’emergenza Covid-19, per di più, ha in qualche modo forzato la mano, portando anche i più ideologicamente contrari al deficit spending verso una “giapponesizzazione” della politica economica, visto che l’intervento sempre più massiccio della Banca centrale neutralizza un debito pubblico di dimensioni sempre maggiori. Francoforte assicurerà inoltre ancora a lungo politiche monetarie espansive, temendo gli effetti della seconda ondata pandemica.
Questa tesoro inatteso, tuttavia, non sarà mai e in alcun modo per l’Italia “oro che cola”. Non lo sarà fino a quando non riusciremo ad abbattere l’immenso stock del debito e la sua patrimoniale occulta da almeno 60 miliardi d’interessi l’anno. Non andrebbe mai dimenticato: ogni euro che non abbiamo e spendiamo male, indebitandoci oggi, è infatti una tassa che i giovani pagheranno caro domani.
Ecco perché il primo errore che si dovrebbe evitare è dissipare le risorse aggiuntive, seminando i talenti dove le imprese pubbliche e private non possono generare crescita.
Mida è diventato famoso per la sua cupidigia. Com’è noto, voleva poter trasformare in oro ciò su cui posava le mani. Ma quello che improvvidamente domandò agli dei (e Dioniso gli concesse) fu in realtà l’incapacità di evitare che qualunque cosa toccasse diventasse metallo prezioso. Se dunque l’avidità, sotto il profilo morale, fu l’istinto che condannò Re Mida a rendere anche sua figlia insieme a cibi e bevande una statua, la causa efficiente – direbbe un teoreta – dell’indesiderata trasmutazione fu in realtà una domanda posta male.
È stato cioè un errore di logica e di sintassi a produrre il paradosso. Istinti e istanze populistici hanno già spinto i passato i nostri decisori a sbagliare richiesta: il maggior deficit delle ultime Leggi di bilancio è stato ad esempio prima perorato come legittimo spazio di manovra e poi però utilizzato per finanziare spesa corrente e non investimenti.
Le attuali circostanze consentono non solo di dilatare a dismisura il deficit, ma di poter sottoscrivere nuovo debito, in parte garantito, cosa impensabile solo un anno fa, a livello europeo. Ora questi soldi vanno spesi bene. Vale a dire rendere questa spesa produttiva. E per dare ulteriore credibilità agli interventi, è in ogni caso necessario prevedere contemporaneamente un’azione livellatrice sulla montagna del debito pubblico. Lo si potrebbe fare con una delle tante proposte formulate in tal senso: dal progetto P.A.D.R.E (Politically Acceptable Debt Restructuring in the Eurozone), avanzato da uno dei più noti economisti europei, Charles Wyplosz, all’idea di valorizzare gli asset pubblici con il risparmio privato. Sono tutte scelte politiche che richiedono un esercizio di altissima responsabilità. Perché scegliere è doloroso, scontenta molti soprattutto nell’immediato. Che si tratti di dare maggior qualità alla spesa pubblica, di utilizzare al meglio la leva fiscale o di aggredire il problema del debito, bisogna comunque scegliere.
Chiedendosi quali fra le tante, forse troppe, sono le vere urgenze degli italiani di oggi e di quelli di domani. L’intelligenza, del resto, si misura di solito nelle risposte che uno dà. Ma sono le domande – che pone un re, un dirigente d’azienda o un governo – a rivelarne la saggezza.