Mamma mi si è rotta la curva di Phillips
In un mercato del lavoro sempre più globale, complesso, stratificato, per alcuni (working poor) “sovranista” e per altri (top manager) internazionalista, un mercato le cui dinamiche fanno impazzire gli economisti, c’è almeno una certezza che rassicura i policy maker: la curva inventata nel secondo Dopoguerra dall’ingegnere giramondo William Phillips non è ancora morta.
La sua formula, per mezzo secolo, ha guidato l’azione delle banche centrali, regolando con un meccanismo quasi idraulico le politiche monetarie. La curva descrive una relazione inversa tra lavoro e prezzi: più diminuisce la disoccupazione, più aumenta l’inflazione. Phillips aveva notato infatti che i salari salivano quando la disoccupazione scendeva e viceversa. Perfezionata negli anni Sessanta dai Nobel Samuelson e Solow, l’equazione algebrica è diventata lo scheletro dei modelli econometrici utilizzati per tenere a bada l’inflazione, compito fondamentale delle autorità monetarie e in particolare della Bce. La curva ha avuto un primo momento di appannamento negli anni Settanta, allorché al salire dell’inflazione la disoccupazione non calava, condizione che da allora chiamiamo “stagflazione”.
Il secondo appannamento la curva di Phillips l’ha conosciuto invece negli ultimissimi anni. Quando la disoccupazione negli Stati Uniti ha quasi toccato il minimo storico, senza essere accompagnata però da un aumento dell’inflazione salariale e quindi dei prezzi in generale. Ecco perché il ritorno alla normalità monetaria negli Stati Uniti è stato molto più graduale del previsto e il rialzo dei tassi diradato nel tempo: la vecchia curva non sembrava rispondere. Sembrava morta. Dalla seconda metà del 2018, però, i salari hanno ripreso a salire. Il mese scorso sono stati creati quasi trecentomila nuovi posti di lavoro e il tasso di disoccupazione è sceso a nuovi minimi da mezzo secolo a questa parte. Assieme alle 263mila assunzioni nette di aprile, il numero dei senza lavoro negli Stati Uniti è diminuito al 3,6%, inviando una coppia di segnali incoraggianti sul ritrovato slancio di un’espansione americana che si avvia a tagliare record assoluti di longevità in estate. E i salari orari sono lievitati del 3,2% su base annuale, come in aprile.
Anche l’Europa dovrebbe ritrovare un livello di disoccupazione così basso – lo è già in Germania, anche se finora i salari sono rimasti piatti – da far ripartire le buste paga. Draghi ha comunque assicurato che la politica monetaria resterà accomodante a lungo, presumibilmente fino al suo mandato in scadenza il prossimo autunno. Una politica monetaria eccessivamente restrittiva rischia infatti di invertire il ciclo. E trasformare la ripresa in recessione, complice la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina che coinvolge ovviamente pure l’Europa. Sarà proprio allora che il rialzo dei tassi sulle due sponde dell’Atlantico, l’inflazione e la fine della fase ultra-espansiva della politica monetaria potrebbero scatenare una vera tempesta perfetta e dunque una correzione del mercato molto più ampia di quelle che si sono registrate negli ultimi due anni sui listini mondiali. Uno scenario da non sottovalutare per chi si appresta a definire contratto e budget nel mercato del lavoro globale.